giovedì 20 novembre 2008

ANDY WARHOL, “Electric Chair”



“Com’era diversa l’esecuzione in altri tempi! Già il giorno prima del supplizio tutta la valle era piena di gente; tutti venivano solo per vedere; la mattina presto appariva il comandante con le sue dame; delle fanfare svegliavano l’intero accampamento; io comunicavo ufficialmente che tutto era pronto; la società – nessun alto funzionario poteva mancare – si disponeva intorno alla macchina; questo mucchio di sedie di canna è un misero resto di quell’epoca. La macchina splendeva, appena lucidata, quasi per ogni esecuzione mi procuravo nuovi pezzi di ricambio. Davanti a centinaia di occhi – fin lassù sulle alture, tutti gli spettatori stavano in punta di piedi – il condannato veniva posto sotto l’erpice dal comandante in persona. Ciò che ora può essere fatto da un comune soldato, era a quei tempi compito mio, del presidente del tribunale, e lo calcolavo a mio onore. E allora cominciava l’esecuzione! Non c’erano stonature a disturbare il lavoro della macchina. Qualcuno non guardava nemmeno più, ma rimaneva nella sabbia ad occhi chiusi; tutti sapevano: ora si compie la giustizia. Nel silenzio si sentiva solo il lamento del condannato, attutito dal feltro. Oggi la macchina non è più in grado di strappare al condannato un lamento più forte di quanto il feltro riesca a soffocare; a quei tempi invece gli aghi per la scrittura spruzzavano un liquido caustico che oggi non può più essere utilizzato. Ecco, e poi veniva la sesta ora! Era impossibile venire incontro a tutte le richieste di contemplare lo spettacolo da vicino. Nella sua lungimiranza, il comandante aveva ordinato che prima di tutto dovessero essere privilegiati i bambini; per via del mio incarico io dovevo sempre essere in piedi vicino; spesso me ne stavo lì con due bimbi piccoli in braccio, uno a destra e uno a sinistra. Ah, come si accoglieva l’espressione trasfigurata dal volto martoriato, come spingevamo le guance nello splendore di questa giustizia, finalmente raggiunta e già declinante! Che tempi, amico mio!”
Franz Kafka, Nella colonia penale

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