giovedì 20 novembre 2008

La sedia vuota e l'abbandono

Uno studio psicologico sui dipinti di Van Gogh 

di Chiara Lukacs Arroyo


Due sedie. Su tela e in strato spesso. Disposte trasversalmente l’una rispetto all’altra. Sono vuote. La sedia di Vincent, in legno e paglia giallo fieno su un pavimento di mattoni rossi, modesta e poco comoda. Alla luce del giorno. La sedia di Gauguin, rosso e verde, più ricercata e confortevole. Nella penombra notturna.

Le due sedie si rapportano con tanta intensità l’una con l’altra da costituire, insieme, un’unità.

Le sedie si guardano, si invitano al colloquio e comunicano di reciproca fiducia. Le sedie si danno le spalle, si respingono, non hanno più niente da dirsi, sono contrastanti come il giorno dalla notte, nei quali ciascuna di esse è, separatamente, immersa. La loro relazione esiste in mondi ambivalenti. 

Sopra di esse sono posati alcuni oggetti: una pipa e la borsa del tabacco; due romanzi e una candela. Oggetti di uso quotidiano, pronti a essere presi o spostati dalla persona a cui essi appartengono. Segno nostalgico di una presenza. Come se la loro immobilità contenesse – per contrasto – movimento, nel richiamo profondo di una presenza umana. Presenza intima, esasperata.

L’oggetto stilizzato, d’uso quotidiano, acquista forza simbolica, estrema metafora di spazio-tempo e presenza-assenza, luogo e momento affettivo di incontro umano o solitudine.

A questo possiamo certamente ricondurre l’influenza della tradizione iconografica, che consentiva di raffigurare soltanto attraverso la simbologia i personaggi sacri, poiché la bellezza della perfezione non distogliesse il fedele dalla preghiera. Così il “trono vuoto” veniva a simboleggiare la presenza di Cristo. Allo stesso modo le sedie vuote di Van Gogh evocano una forte, incombente presenza: Gauguin è seduto su quella sedia, seppure non lo si veda. Mobile monumento e implorazione. E’ l’implorazione di un’amicizia. In questo senso la sedia vuota si caratterizza come metafora di abbandono.

L’incontro con Paul Gauguin segna per Vincent un forte legame. Il pittore – che Vincent considerava un amico ed un maestro (nelle sue Lettere Van Gogh si riferisce al maestro chiamandolo spesso Pa: diminuitivo di Paul, ma non a caso anche un modo per rivolgersi a un padre) lo raggiunse ad Arles nel 1888, invitato con l’intenzione di costituire una comunità artistica nel sud. La casa di Arles era il luogo d’incontro quotidiano di Vincent e del suo ospite. I due pittori vi si sedevano per discutere sull’arte e sul mondo. Fino alla separazione, conclusa con la partenza di Gauguin e l’autoamputazione di un orecchio da parte di Van Gogh.

L’ultima visita di Gauguin, prima della partenza è strettamente connessa al crollo nervoso dal quale Vincent non si riprenderà mai completamente. Nel periodo della malattia, durante il suo ricovero in ospedale per malati mentali, Vincent scrive ad Albert-Emile Aurier “(…) ho cercato di dipingere il suo posto vuoto” (Lettera 626a).

La rottura dell’amicizia lasciò in Vincent un vuoto.

“Dopo aver accompagnato Pa alla stazione, sono rimasto a guardare il treno che si allontanava finchè ho potuto vedere lui o almeno il fumo. Poi sono tornato a casa e ho visto la sedia di Pa accanto al tavolo, dov’erano rimasti, ancor dal giorno prima, i suoi libri e i suoi quaderni. Mi sentivo triste, proprio come un bambino, eppure sapevo che ci saremmo rivisti presto”. 

Questa Lettera testimonia il profondo senso di abbandono che lasciò in Vincent il vissuto di questa perdita.

La stazione, il luogo-simbolo della separazione per eccellenza; il treno che si allontana; lo sguardo volto a cercare la presenza; e poi la casa con la sedia vuota; il silenzio di quegli oggetti desolati, la solitudine, la mancanza, la tristezza sono tutti i segni di una profonda ferita le cui radici risalgono a molti anni prima, all’infanzia del giovane Vincent.

A questo proposito è necessario osservare quanta di questa infanzia vi sia nell’opera artistica di Van Gogh. La stessa pittura presenta cambiamenti: l’apertura amorosa verso tutte le cose, la natura e l’uomo, si ritira improvvisamente, poiché troppo spesso è stata ferita.

Scrive Vincent al fratello: “Sedie vuote – ce ne sono sempre di nuove, altre se ne aggiungeranno e prima o poi non resteranno che… empty chairs” (Lettera 252).

L’immagine della sedia vuota aveva accompagnato Van Gogh fin dalla giovinezza. A venticinque anni già scriveva la tristezza alla vista della sedia (Lettera 118). Questo oggetto è presente nell’inconscio del pittore come un “ricordo della morte”. In questo senso lo sguardo del pittore all’universo è continuamente offuscato dall’angoscia della transitorietà di tutte le cose e dal pensiero della morte.

Al momento della separazione da Gauguin l’immagine della sedia vuota torna come reminiscenza in tutta la sua forza. Alla morte del padre, avvenuta anni prima (1885), Vincent aveva disposto la sua pipa e il tabacco in una natura morta estremamente carica di significato simbolico. Sulla paglia della sua sedia ritroviamo la stessa pipa e la borsa del tabacco.

Il significato della pipa è anche riconducibile a Dickens che, nel ricordo di Van Gogh, aveva consigliato la pipa come il più sicuro antidoto contro il suicidio (Lettera W 11).

A proposito di quella concezione di outsider geniale che la società ha escogitato, oltre alle ombre della sua vita è necessario ricordare che Van Gogh è anche un figlio del suo tempo, ovvero di un secolo (il XIX) in cui, secondo quanto scrive lo storico d’arte austriaco Hans Sedlmayr nella sua opera La perdita del mezzo “furono gli artisti a soffrire più profondamente (…) Nel XIX secolo vi fu un tipo affatto nuovo d’artista tormentato, isolato, folle, disperato, l’artista situato ai confini della pazzia, che prima era stato un caso eccezionale. Gli artisti del XIX secolo, gli spiriti grandi e profondi, hanno spesso il carattere di vittime che si offrono al sacrifico. (…) condividono tutti una grande solidarietà nel dolore. Soffrono tutti per una stessa ragione, la scomparsa e la “morte” di Dio e la caduta dell’uomo”.

Secondo questa visione l’opera di Van Gogh, oltre ad essere il riflesso della propria esistenza personale, è altresì corrispondente alla crisi di tutto un secolo. In questo senso l’arte e la vita di Van Gogh si collocano su un profilo storico-esistenziale. Ed è in questa visione che la sua opera si compirà fino alla crisi di follia e al suicidio. La malattia di Van Gogh venne ad essere il riflesso di quella malattia del secolo, quel dolore cosmico che Sedlmayr tradurrà con la perdita di Dio.

Seppure le due sedie parlino anche di questa perdita, tuttavia, se sapremo ascoltarle non scorgeremo seduto sopra di esse alcun demone, se non la solitudine, la perdita, e l’infanzia negata di un grande pittore.





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